Molte cose, viste da lontano, sembrano più semplici di quelle che sono. Non la burocrazia, che, a mio parere, è invece più complicata vista da fuori che da dentro. Una volta che si entra nel bizzarro “modo di ragionare” delle scartoffie, questa diventa più comprensibile.
Questa regola vale, a mio avviso, anche guardando ai requisiti che servono per aprire un bar e risponde bene anche alla classica domanda: che attestati servono per aprire un bar?
Bene: gli attestati necessari sono 3, ma forse anche solo 2, ma forse anche nessuno,
Una risposta un po’ confusa (come la burocrazia quindi?) ma che in realtà parte dalla necessità di definire che tipo di attività apriremo e che ruolo vogliamo ricoprire nel nostro locale.
Chiaro che se leggiamo questo post il ruolo a cui puntiamo sarà quello di imprenditore, la nostra idea sarà quella di aprire un nostro bar ed esserne quindi capo supremo e responsabile in tutto e per tutto.
Anche da imprenditore si può però decidere (soprattutto se si hanno dipendenti) di delegare. Potremo decidere per esempio di essere o meno referenti per alcune aree del locale, come responsabile per area igienico sanitaria (HACCP) o per l’area antinfortunistica (responsabile Rspp). Sarà inoltre da vedere se vorremo essere il detentore dei cosiddetti “requisiti professionali” o se preferiremo avvalerci di un preposto.
Ma andiamo con ordine. I tre tipi di attestati che possono servirci per aprire un locale sono:
Vediamoli uno per uno
Uno dei passi fondamentali per l’apertura di un locale sarà la preparazione e l’invio al SUAP della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) il documento con cui dichiariamo che l’attività che ci apprestiamo ad aprire è conforme alle normative e che quindi può aprire; una autodichiarazione insomma.
Fra le tante voci, planimetrie e allegati che compongono la SCIA due voci ci riguardano da vicino, ci verrà infatti richiesto se abbiamo i requisiti morali e quelli professionali per aprire un bar.
Ai requisiti morali (si, si chiamano così) abbiamo già dedicato un post. I requisiti professionali possiamo invece dimostrare di averli in diversi modi.
A queste alternative abbiamo dedicato un post dettagliato.
Se non abbiamo tutto questo dovremo invece passare attraverso un corso per ottenere un attestato SAB.
Questo attestato si ottiene partecipando ad un corso della durata di 120/150 ore e dal costo che sul mercato si aggira dai 500 agli 800€. Il corso è organizzato da numerose associazioni come Confersercenti, o dalle Camere di Commercio.
Se il corso SAB può essere evitato avendo studiato, lavorato etc, non potremo invece evitare di prendere parte ad un corso HACCP. in realtà questo corso si può meglio definire come parte di un percorso, che ci accompagnerà in ogni giorno di vita del locale.
In questo percorso l’attenzione è focalizzata sugli aspetti igienico/sanitari, quindi sull’evitare contaminazioni e pericoli dovuti a alimenti scaduti o scarse condizioni igieniche e di conservazione dei cibi.
Il corso e il relativo attestato lo dovranno prendere tutti quelli che nel locale hanno a che fare con il cibo, quindi anche il cameriere part-time. Si tratta ti un corso meno impegnativo di quello SAB. La durata è infatti di sole 4-12 ore, a seconda della mansione (e della regione in cui abbiamo il locale). Il costo del corso, che viene massicciamente proposto anche online, si aggira ormai in poche decine di Euro.
Attenzione però, se il SAB, come il diamante, è per sempre, così non è per il corso HACCP, che deve essere rinnovato ogni 2/ 5 anni, sempre a seconda dei regolamenti regionali.
Questo corso non può essere evitato, ma non è detto che il responsabile dell’area (che dovrà sostenere un corso più lungo e che sarà chiamato alle responsabilità del piano di autocontrollo) debba essere il proprietario. Negli alberghi, ad esempio, il responsabile è quasi sempre il direttore o il food and beverage manager.
La certificazione di partecipazione al corso HACCP nostra e di tutti i dipendenti andrà tenuta all’interno del locale e mostrata in caso di controlli.
Molto di ciò che abbiamo detto per l’HACCP vale anche per l’area di prevenzione degli infortuni sul lavoro. Anche in questo caso il corso devono farlo tutti quelli che lavorano nel locale e va periodicamente “rinfrescato”.
La figura del responsabile, che anche in questo caso non deve essere necessariamente il proprietario, viene denominata RSPP, cioè “Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione”.
Importante differenza rispetto all’HACCP, questa figura è obbligatoria solo se nel locale c’è almeno un lavoratore dipendente, o un lavoratore ad esso comparabile (un familiare o coniuge).
Il corso che porta all’attestato RSPP ha una durata di 16 ore (quando si parla di livello di rischio basso, il più tipico nel mondo dei bar/ristoranti. Questa durata sale a 32 o 48 ore nel caso di rischio rispettivamente medio e alto di solito legato ai locali che fanno intrattenimento, come le discoteche.
All’interno del corso si lavoro per individuare e valutare i fattori di rischio, si segue (di solito con il supporto di un tecnico esterno) i programmi di formazione dei dipendenti e i piani di sicurezza aziendali.
Riguardo ai costi dei corsi per la sicurezza bar abbiamo fatto un po’ di ricerche in rete, trovando costi abbastanza vari, da 130 a 300€
Con questo corso termineremo la nostra formazione, e avremo completato tutti gli attestati che servono per aprire un bar. La nostra avventura può cominciare!
The post Che Attestati Servono per Aprire un Bar? first appeared on Aprire Un Bar.]]>Dopo aver dedicato post alle licenze per la somministrazione di tipo a o b é adesso il momento, per il nostro blog, di andare a conoscere le licenze di somministrazione alimenti e bevande tipo C.
La tipologia C non è, come le categorie A o B, basata su cosa si può preparare, è basata invece sulle attività che si svolgono in un locale ma sono collaterali alla somministrazione. Questa licenza identifica infatti i locali che fanno dell’intrattenimento (musica dal vivo, eventi teatrali, karaoke…) la loro attività prevalente, sia come introiti che come superfici occupate.
La licenza di somministrazione tipologia C per i bar e locali viene definita dalla legge in questo modo:
“Locali in cui la somministrazione di alimenti e bevande viene effettuata congiuntamente all’attività di intrattenimento e svago. Questa tipologia di locali non sono assoggettabili ai limiti numerici circa il rilascio delle autorizzazioni, ma condizione indispensabile è che l’attività di intrattenimento e svago sia prevalente su quella di somministrazione di alimenti e bevande.
Nel caso contrario si è subordinati al parametro numerico (quindi ad eventuali vincoli sul numero di locali che può essere presente in una zona NDR). Per questo motivo, la Legge 287/91 individua due tipologie sostanziali di esercizi di somministrazione in cui vi è congiunta l’attività di intrattenimento e svago: 1) quella in cui è prevalente l’attività di somministrazione di alimenti e bevande su quella di intrattenimento e svago ( soggetta a parametro numerico); 2) quella in cui è prevalente l’attività di intrattenimento e svago su quella di somministrazioni di alimenti e bevande ( non soggetta a parametro numerico): l’autorizzazione relativa è stata sostituita dalla denuncia di inizio attività – art.3 comma 6 L.287/91 e art.19 L. 241/90. Circa la valutazione dell’attività prevalente si fa riferimento al criterio basato sul volume d’affari ovvero sulla superficie maggiore destinata a tale attività.”
Torniamo ancora una volta su un mantra che conosciamo bene da anni: le licenze per l’aperture di bar e locali non esistono.
Sono scomparse, come concetto, alla fine degli anni ’90, e non esistono quindi più nemmeno le licenze di somministrazione di tipo C.
C’è da dire, che molti comuni mantengono ancora questa definizione, sopratutto per definire le attività in cui si svolge sì somministrazione, ma congiuntamente ad una attività prevalente. Prevalente? Per definirla tale, il regolamento del Comune di Prato, in Toscana, dice che:
“L’attività congiunta (quindi l’intrattenimento) si intende prevalente nei casi in cui la superficie utilizzata per il suo svolgimento è pari ad almeno 3/4 (tre quarti) della superficie complessivamente a disposizione per l’esercizio dell’attività, esclusi magazzini, depositi, uffici e servizi”
Nei regolamenti comunali che abbiamo potuto leggere, la legge non mette alcun vincolo alla grandezza (o piccolezza) dei locali. In pratica una licenza di tipo C può essere assegnata anche ad un buco di venti metri quadrati (chiedete sempre come sono i regolamenti nella vostra zona, ci possono essere differenze da comune a comune).
In ogni caso, un locale con queste caratteristiche avrà bisogno di spazio, magari per ospitare un palco e soprattutto per avere spazio libero per permettere di ballare, considerando anche che i 3/4 dello spazio dovranno essere dedicati all’intrattenimento, e quindi il banco bar dovrà stare in un’angolo…
Partendo da questo presupposto proviamo a ragionare. Come abbiamo visto diverse volte in questo blog e in diversi casi pratici, e soprattutto per chi è alle prime armi come gestore, gli spazi grandi sono spesso un rischio: investimenti iniziali più alti, maggior costo dell’arredamento e della ristrutturazione, maggiori costi in affitto e utenze, maggiori difficoltà a riempire il locale di clienti e ed di energia… per questo, sopratutto ai neofiti di questo campo consiglieremmo un po’ di attenzione, prima di pensare di gestire locali di dimensioni importanti, magari sopra i 180/200mq, Sono sfide complesse, che richiedono esperienza e visione.
Oltre a questo aspetto gestionale, gli spazi grandi significheranno anche un allungamento dei tempi di apertura. Oltre al normale percorso burocratico infatti, potremmo aver bisogno di chiedere il nulla osta ai Vigili del Fuoco.
Come abbiamo visto in questo post infatti, questi ultimi dovranno darci un nulla osta se il locale sarà più grande di 200mq, oppure/ovvero se avrà oltre 100 posti a sedere.
Le valutazioni che i Vigili faranno verteranno su:
Queste valutazioni porteranno ad allungamenti dei tempi di apertura e a lavori suppletivi per portare tutto a norma.
Vale la pena di aprire locali di questo tipo? Sempre difficile dirlo, i modelli a chi riporta la licenza di somministrazione alimenti e bevande di tipo c, sembrano al giorno d’oggi funzionare in modo più episodico, magari solo d’estate (pensate agli eventi karaoke) o per certe serate, ma difficilmente in maniera continuativa, come la crisi delle discoteche dimostra.
Aprire un locale di questo tipo sarà quindi una scelta da valutare con molta attenzione, e in questa valutazione dovremo considerare anche la percezione che il cliente ha del nostro locale, difficile infatti collocare grossi eventi in un classico bar caffetteria… ma mai dire mai…
The post Licenza Somministrazione Alimenti e Bevande tipo C first appeared on Aprire Un Bar.]]>Questa volta scriviamo un post su qualcosa che non esiste più, ma che a quanto pare rimane ricercatissimo!
Certi passaparola sono duri a morire, e nonostante le licenze per l’apertura bar non siano più richieste dal 2006, sono ancora molte le query dei motori di ricerca che riguardano argomenti come il prezzo delle licenze bar, il funzionamento delle licenze per bar di tipo B e perfino la distanza minima fra un bar e l’altro.
Tutto questo, val la pena di ripeterlo, è finito, non c’è più, l’approccio è cambiato anche come filosofia (stiamo parlando sul serio) ma, per provare a chiarire una volta per tutte il concetto, proveremo a parlare del sistema delle licenze come se fossero ancora vive, resuscitate!
Una prima cosa da spiegare e a cosa servivano le licenze. Essenzialmente a tre scopi:
In pratica, quando si voleva aprire un locale nuovo, non rilevando cioè uno già esistente (di cui avremmo acquisito la licenza, con possibilità e limitazioni) si chiedeva al Comune nel territorio del quale si voleva aprire di rilasciarci “Una licenza di tipo A, B, C o D” e il Comune, dopo le opportune verifiche sul numero di locali di un certo tipo presenti nella determinata zona e distanza fra gli stessi, decideva se rilasciarcela.
Le tipologie di locali erano, nel dettaglio, le seguenti
Licenza somministrazione alimenti e bevande tipologia “A”
Rientravano in questa categoria i locali in cui si consumavano cibi e bevande (ma sopratutto cibi) prevalentemente da seduti. Ad esempio ristoranti, pizzerie, trattorie, tavole calde (che adesso definiremmo bar-punto-pranzo) birrerie che servono cibo, self service e locali simili.
Licenza per l’apertura locali di tipo “B”
In questa categoria i classici bar e gli altri luoghi con somministrazione sopratutto “In piedi”, come pasticcerie, paninoteche da asporto, gelaterie e concetti simili
Licenza somministrazione alimenti e bevande tipo “C”
All’interno di questa categoria trovavamo locali della tipologia “A” e “B”, dove però la somministrazione di cibi e drink avveniva all’interno di attività di intrattenimento. I più classici locali erano le discoteche, i night e le sale da gioco (diciamo slot) ma perfino gli stabilimenti balneari
Licenza per l’apertura locali di tipo “D”
A comporre quest’ultima categoria i locali di tipologia “B” a cui era però preclusa la possibilità di servire bevande alcoliche di qualsiasi tipo.
O meglio, quanto costavano?
Niente, a parte alcune piccole spese per la presentazione della domanda, se a rilasciarcele era il Comune.
Il costo della licenza per bar era invece una voce importante se dovevamo acquistarla da un locale già esistente. I costi in questo caso erano legati alla redditività del locale stesso, e di solito partivano dall’idea che la richiesta di acquisto fosse legata, e congrua, al fatturato annuale del locale stesso. In pratica, se volevamo rilevare un bar che fatturava sui 100.000 Euro l’anno, potevamo ragionevolmente pensare che quella sarebbe stata la cifra che ci avrebbero chiesto e sulla quale avremmo trattato.
Questo tipo di approccio è ancora largamente utilizzato nella compravendita dei locali, anche se i parametri hanno visto allargarsi notevolmente la forbice, in positivo e negativo. Su questo tema abbiamo scritto un reportage completo che speriamo vi sia utile.
Ecco un’altro paletto che il periodo delle liberalizzazioni, intorno al 2006, ha fatto cadere. Fino a quel momento infatti veniva riconosciuta come vincolante una distanza minima fra un esercizio commerciale e l’altro e il Comune non ci avrebbe rilasciato licenza se l’avessimo richiesta per un fondo commerciale troppo vicino ad altri bar o attività ristorative.
Queste distanze minime fra locale e locale non erano fissate con legge nazionale, ma decise a livello comunale e potevano essere diverse da zona a zona: qualche decina di metri in un centro storico o in una via dello shopping, chilometri in aperta campagna.
Chiaro che queste distanze minime erano considerate importantissime dai proprietari dei locali, ed erano maledette da chi voleva entrare sul mercato aprendo un nuovo locale. Difficile dire chi avesse ragione, dipende chiaramente da come la si guarda; quel che è certo che tutto il mondo è andato in questa direzione, basta pensare alle grandi città del Nord Europa, dove ci sono aree e strade in cui è impossibile trovare un cappuccino e altre i cui i locali si ammucchiano uno accanto all’altro.
In questi casi sarà il mercato a decidere, facendo sopravvivere (c’è da credere) i migliori.
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E’ ormai dall’apertura di questo blog, otto anni fa, che scriviamo come, per aprire un bar o un ristorante non servono più le vecchie licenze, si deve invece presentare una SCIA, di fatto una autocertificazione, in cui segnaliamo di possedere i requisiti morali e professionali e certifichiamo che il locale dove stiamo aprendo la nostra attività è in linea con le normative vigenti, anche in relazione al tipo di piatti e preparazioni che vogliamo proporre ai nostri clienti.
Normative vigenti abbiamo detto, ma quali sono? Come sappiamo, le regioni italiane hanno una certa autonomia, e se le leggi, come schema, sono approvate a livello nazionale o addirittura di comunità europea, in realtà queste vengono poi applicate a livello regionale in modo diverso da un contesto all’altro.
Queste differenze non sono di solito molto grandi, anzi, capita spesso che la legge di una regione “guida” venga copiata quasi punto per punto dalle altre regioni (si sa che i politici non sono dei grandissimi lavoratori…).
Non essendo più valido il concetto delle licenze, le autorizzazioni vengono rilasciate se il locale in cui vogliamo aprire la nostra attività è in linea con le attuali normative di carattere igienico sanitario.
Queste normative vanno a “misurare” il nostro locale, stabilendo i parametri che devono avere i bagni, gli antibagni, i magazzini, le aree di preparazione come la cucina e stabilendo le norme di accesso per i disabili e le proporzioni fra gli spazi interni e la luce esterna e fra area di preparazione e area di servizio al pubblico.
Queste norme possono inoltre differenziarsi, caso per caso, a seconda delle preparazioni che vorremo cucinare e servire.
Abbiamo già riassunto queste norme generali in questo post, ma proviamo ad andare oltre, dandovi una lista di tutte le normative regionali.
Nella lista qui sotto riportiamo i riferimenti alle leggi regionali per l’apertura di bar e ristoranti:
Alcune annotazioni a piè di questa lista.
Alcune regioni, come vedete, non sono presenti, in questi casi si fa riferimento alla legge nazionale 287/1981 e alle successive modifiche.
Acuni comuni hanno predisposto, per alcune aree del loro territorio specifici regolamenti; in questo caso, invece (o oltre) della SCIA , si dovrà richiedere una Autorizzazione all’esercizio della attività di pubblico esercizio, presentando domanda al SUAP.
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Come sappiamo bene, fra i requisiti per l’apertura di un locale, sia esso un ristorante, bar o pub, ci sono quelli personali definiti professionali; questi si espletano o avendo avuto esperienze professionali precedenti (aver già lavorato almeno due anni negli ultimi cinque) o all’aver frequentato alcuni percorsi di studio o, ancora, partecipando ad un corso che una volta veniva definito corso REC, che adesso, nella maggior parte delle regioni è il corso SAB, ma non in Lazio, dove ha trovato un nome è una formula del tutto diversa.
Il nome è perfino simpatico: PIC, che poi diventa percorso integrato assistito; la formula invece esce dal classico schema di corso in aula, che rappresenta solo la prima parte del percorso, mentre la seconda parte prevede una consulenza che si protrae prima e dopo l’apertura del corso.
Andando nel dettaglio abbiamo spulciato il programma del percorso PIA organizzato dalla Confcommercio di Roma, ma anche quello di altri enti e di altre associazioni di categoria sembra del tutto identico, la differenza, come spesso in questi casi, la fanno i docenti.
Il percorso in questione è articolato in un corso in aula di 92 ore in cui si parla di normative e di fiscalità, di manipolazione e merceologia degli alimenti (il corso HACCP è integrato –e questa è una buona notizia- al percorso PIA) e perfino di marketing.
Fatto il corso ci si sottopone ad un esame, che, se superato permette di ottenere quattro certificazioni.
In pratica il 92 ore abbiamo assolto a tutti i corsi obbligatori, non male.
A questo punto inizia la seconda parte, la fase di supporto all’apertura, fra i servizi offerti da Confcommercio troviamo:
Se il programma è interessante, internet non offre alcun feed back, alcun parere di chi vi ha preso parte, e sicuramente invitiamo i lettori che hanno partecipato a questo programma di farci sapere cosa ne pensano, sarà interessantissimo per chi segue il blog.
Il costo non è bassissimo, anche se il programma è articolato, e quelli che ce lo hanno comunicato (i siti delle associazioni sono molto abbottonati) lo collocano sopra i 1000€ +IVA , ma in molti casi, e non sappiamo con quali modalità (fino ad esaurimento?) sono disponibili contributi regionali fino a 500€. Anche in questo caso invitiamo gli organizzatori dei corsi a farci sapere qualcosa in più.
The post COS’È IL PIA, PERCORSO INTEGRATO ASSISTITO, E LE SUE DIFFERENZE DA REC E SAB first appeared on Aprire Un Bar.]]>
Cominciamo da vicino, A Prato, Toscana. Cominciamo da qui anche perché Prato appare come un laboratorio e una parabola delle nuove liberalizzazioni e del meccanismo di licenza a punteggio di merito.
A Prato città infatti, e in buona parte della provincia, l’apertura di locali è, per quello che riguarda i requisiti amministrativi (quelli sanitari non cambiano) da meno di un anno quasi completamente liberalizzata e di fatto si può aprire un locale ovunque, se si raggiunge un minimo di 60 punti su una tabella di merito che comprende vari requisiti.
I requisiti che danno punteggio appartengono a tre diversi gruppi: urbanistico, strutturale e gestionale.
Fra quelli urbanistici troviamo la vicinanza da parcheggi e mezzi pubblici e la vicinananza con altri locali (oltre 50 metri 1 punto, oltre 100, 5 punti). Fra i requisiti strutturali sono importantissimi la qualità dei servizi igienici, la raccolta differenziata, l’accessibilità per i diversamente abili, la presenza di spazi esterni e l’uso di tecnlogie per il risparmio energetico (10 punti!)
infine i requisiti gestionali. Fra questi l’uso di pro0dotti locali e tipici, il servizio wireless, i menù in lingue straniere e l’assenza della voce “coperto”.
Se si intende aprire un locale a prato quindi dovremo presentare una DIA in comune (l’attività dovrà iniziare entro 180 giorni dalla presentazione della stessa) e presentare attestazione con documenti (mappe, piantine, documenti) che certifichino il raggiungimento dei punti di merito necessari, documenti che poi andranno conservati al bar.
In teoria la licenza può esssere ritirata se venissero a mancare i famosi 60 punti.
La liberalizzazione a Prato sembra dar ragione a coloro che annunciavano il peggio. Crollo del prezzo delle licenze, apertura di molti locali nuovi (anche molto belli) spalmatura della clientela e quindi crisi di molti locali che hanno visto diminuire il proprio fatturato per l’aumento della concorrenza.
Questo in meno di un anno, forse ci vorrà più tempo e qualche sofferenza perchè il mercato si autoregolamenti.
Questo articolo è stato scritto grazie all’aiuto prezioso del dottor Achille D’Isernia della confesercenti di Prato. Mail
[email protected]
In alcune zone d’Italia, seguendo un po’ il trend storico politico del liberismo, si è arrivati più o meno velocemente alla liberalizzazione delle licenze.
Questo evento non ha di fatto portato (per quello che ne so) alle due terribili conseguenze che molti avevano paventato: non hanno portato all’apertura di migliaia di locali e non hanno portato al crollo del prezzo di vendita dei locali già esistenti.
In alcune aree le licenze sono sì libere, ma l’apertura di un locale ex novo (vale a dire in una struttura dove prima non c’era un pubblico esercizio) è di fatto molte volte bloccata dal piano urbanistico dell’area, e quindi dalla destinazione d’uso del fabbricato. In pratica se il locale è destinato ad essere una attività artigianale o un garage non lo si può far diventare un bar. Oltre a questo bisogna vedere se i locali sono in regola con le norme sanitarie.
Quanto al prezzo delle licenze se esso è sceso (se) è per l’andamento del mercato, e non per la liberalizzazione. Di fatto, anche prima si valutava e si pagava l’avviamento del locale, non certo la licenza.
Sia chiaro, la liberalizzazione è realtà solo in alcune aree d’Italia, in altre siamo ancora fermi alle vecchie centinaia di metri fra un locale e l’altro.
P.S. nel frattempo, da quando questo post è stato scritto, è cambiato tutto, e adesso chi vuole aprire un locale deve fare riferimento alle Leggi Regionali (che trovate elencate regione per regione in questo post) che lo inviterranno a compilare una SCIA (trovate tutti i dettagli su questo post, e durante i nostri corsi di gestione e apertura bar si analizza proprio la stesura di una SCIA).
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